Si divertiva da morire a indossare i vestiti di sua madre e a imitarla. E quanto s’innervosiva lei. Era troppo bravo. “Nuccio!” gridava “Smettila!” Ma non voleva saperne nulla. Quel rossetto, quegli orecchini di perla, non gli parevano fuori posto su quel viso. Non a lui. La madre così lo trascinava in bagno e con occhi spaventati, esterrefatti, di disgusto, chiudeva la porta alle sue spalle, perché nessun altro sguardo potesse essere come il suo. “Un bambino non gioca con le bambole, Nuccio. Un bambino gioca con i soldatini, con le macchine!” Pioveva quando la convinse ad accompagnarlo in una scuola di danza. Avrebbe saltato anche lui finalmente, fatto girare il suo corpo per ore e ore, sudato di fatica! D’estate costringeva zii e cugine ad assistere ai suoi spettacoli: applaudivano forte, con i visi che abbondavano di sorrisi, paonazzi di risate. Pioveva sulle sue guance, che bruciavano di carezze troppo forti. “E te l’avevo detto a mamma che a lui queste cose non piacciono, ma lo fa per il tuo bene!” Un padre pretende il meglio per il figlio e serviva che iniziasse a capire cosa fosse meglio per la sua crescita. Un giorno Nuccio entrò in camera da letto e, indossate una delle giacche d’ufficio, si avvicinò allo specchio per iniziare a urlare com’era abituato a vedergli fare, mimando con le dita il gesto della pistola, sparando tre volte dritto al suo riflesso. A scuola, mentre i compagnetti continuavano a prenderlo in giro, si bendò gli occhi per asciugare le lacrime con il fiocco del grembiule, rosa come quelle scarpette che non avrebbe mai dovuto volere sue. Lo strinse tra i denti per trattenere i singhiozzi quando le gettò insieme alle bambole tra i chicchi di riso avanzati durante il pranzo e le richiuse sotto il coperchio per poterle dimenticare. Poi, diventato blu, lo lasciò scivolare dalle labbra e aspettò che piano piano gli si stringesse addosso, come fosse un cappio al collo. Nuccio di certo stava iniziando a capire. Rosa o blu? È una scelta che costa la vita.